In ottantotto anni ne ha viste tante, chissà quante difficoltà ha incontrato e quante ne ha superate, quanti colpi la vita gli ha inferto e quanti di questi colpi è riuscito a trasformare in ferite di guerra e segni di forza, chissà quanti miliardi di miliardi di pensieri ha avuto e quante belle cose ha fatto, chissà quante volte ha detto cose bellissime e quante volte ha perso l’attimo per dirle, e anche quanti errori ha fatto, è naturale.
Ha attraversato tempi diversi e ha visto molti dei principali cambiamenti di questo indecifrabile mondo degli uomini, ed è la prima persona “conosciuta” che ho incontrato in questo quartiere, ancora non gli avevo parlato e già era incredibilmente parte del nostro passato, in qualche modo, all’inizio per noi di un nuovo presente.
E’ un uomo del secolo scorso ma anche di questo, perché aveva saputo adattarsi come e meglio di altri ai cambiamenti, tanto da non apparire mai fuori posto o datato, né come agire né come pensiero, e dato che un “Secolo” me lo recapitava ogni giorno nella buca…
Mi è sempre parso un uomo che si misura sulle lunghe distanze e sulle cose importanti, uno che agisce senza dar troppo a vedere, genovese dentro, sia pure in esilio parziale, genoano di fede sportiva, uno di quelli, intuisco, che si sbilanciano poco ma se lo fanno non serve la firma su un foglio; uno di quelli che di rado si impone ma quando sente che è necessario sa come farlo; sia pure in terra apuana, ancorché di confine, la sua genovesità si respira a pieni polmoni anche in casa, ne sono intrise le pareti, era qualcosa che si sentiva nell’aria, è qualcosa che si sente nell’aria, in quel piccolo pezzo di Genova che ho qui accanto.
Padre presumo attento e capace di due brave e notevoli figliole, accompagnato da sessantasei anni a chi, anche lei poco appariscente ma di forte presenza, in queste ore avrà mille tristi pensieri, ha avuto la fortuna di poter vivere sempre accanto a chi gli era più vicino, dal primo all’ultimo giorno, in una specie di famiglia allargata che funzionava alla perfezione in un delicato gioco di incastri che intuisco non sempre agevoli: non è poco, davvero non è poco. Un passato da lavoratore, una famiglia in formazione, gli anni della pensione e poi il nuovo ruolo di nonno e di cuoco. Sempre misurato e cortese, silenzioso ma non distante, garbato ma non affettato, abitudinario ma non noioso, serio ma non freddo, nonostante apparisse poco era sempre avvertibile la sua presenza, discreta ma costante, forse più quando era assente che quando lo avevi davanti, insomma più di luce riflessa che diretta, ma sempre in grado di illuminare quel che aveva bisogno di esserlo; non era il lampione che illumina a giorno la piazza e quasi disturba, ma la lampadina umile e cortese, poco lodata e poco notata ma indispensabile, che ti guida su per le strette e ripide scale e senza la quale avanzi a fatica; non era solo il democratico e indiscusso re del castello, ma anche l’oscuro ingranaggio che in silenzio faceva girare il meccanismo, quel meccanismo complesso e fragile che si chiama famiglia o famiglia allargata (alla maniera degli avi), quell’ingranaggio che non diresti e che invece è alla base del movimento, quello intorno a cui ruotavano le altre parti: senza darlo a vedere, era il tutto anche se non lo pareva, solo chi rifletteva un poco ne aveva la percezione. Io lo conoscevo un po’ ma non moltissimo, eppure si avvertiva la natura di brava persona, quello stampo di persone oggi sempre meno in voga.
E adesso, passato un poco di tempo da queste ore di confusa sorpresa e di afflitto dovere, la sua presenza non sarà meno avvertibile, perché quando si è come lui se ne va il corpo, se ne vanno per sempre le sue debolezze, la sua ombra, i suoi gesti, ma non l’impronta che lascia sulle persone, sui luoghi, sulle cose. E il meccanismo continuerà a girare, perché quello che lo teneva su non era di certo solo la spoglia mortale.
Non è mai il momento giusto per andarsene, ma quel momento arriva sempre. E, dopo, nulla sarà come prima, perché nulla è mai come prima, ogni giorno lascia dietro di sé cose che non avremo più o che avremo ancora ma non così, è una corsa senza sosta e senza senso, un percorso a perdere, in cui occorre cercare di trattenere quel che si può e resistere ai colpi avversi. Ogni giorno ci toglie qualcosa, ci infligge un piccolo o grande colpo, ci fiacca vieppiù, e ogni mattina è sempre più dura ricominciare. Questo vale per tutti, anche per chi ancora è nel fiore o quasi degli anni, e ancor di più per chi è agli ultimi giri, cambia solo il grado con cui si percepisce questo lento sfiorire: avanzi e gli altri che cadono, i tempi che inaridiscono, il corpo che ti abbandona sono tutti piccoli tasselli che se ne vanno piano piano, con spietata costanza, e lasciano il mosaico sempre meno comprensibile e godibile.
Dopo un antico e grande dolore mai dimenticato, che ha avuto nel fiore della sua età adulta e che immagino impossibile da superare del tutto, e dopo la gioia di aver visto comunque le sue due creature più fortunate al loro giusto posto nel mondo e, infine, un meraviglioso nipote, aveva avuto negli ultimi anni qualche guaio fisico, anche rilevante, sempre superato brillantemente; quest’ultimo, improvviso e che pareva anch’esso esorcizzato, con un colpo di coda notturno, proprio quando pareva appena cominciato l’ennesimo percorso di recupero, lo ha fermato.
Potrei anche pensare che non avesse più risorse, fisiche o spirituali, per fare anche questa salita, che non avesse più voglia di salire per l’ennesima volta quella scala lunga da cui era già precipitato anni fa, e se così fosse lo capirei benissimo: invecchiando la voglia di ricominciare da capo o quasi diminuisce e anche l’amore per chi potresti lasciare, intatto, non riesce a rinfocolarla: sai che il tuo amore non li lascerà mai, e che non appassiranno mai i fiori nati dai semi che hai gettato in loro, ma senti anche che davvero non ce la fai più a reggere il timone e che è ora di andare in coperta per la lunga notte.
Oppure, semplicemente, il caso che regola le nostre vite ha deciso che quello era l’attimo (in)giusto per cancellare un altro coraggioso tentativo di rimettersi in piedi e riprendere l’incerto ma lungo cammino di un capitano mai domo, ferito ma non distrutto, colpito ma non sconfitto, consegnando invece al ricordo quel che prima era vita e che comunque, superati questi istanti, non sarà mai morte del tutto, anche se, per come siamo fatti, la presenza fisica è così potente da stordire quando viene a mancare.
A volte avevamo parlato un po’ più a lungo dei soliti saluti tra vicini e avevo capito con certezza sorprendente quanto fosse orgoglioso della sua famiglia e delle sue figlie: cose che di rado si riescono a dire agli interessati, semmai è più facile farle capire indirettamente, con i gesti, gli sguardi, la presenza e che a volte, paradossalmente, è più facile che traspaiano da discorsi casuali con persone che sono conoscenti o poco più. Della compagna di una vita non si era parlato, non eravamo in totale confidenza, del resto si tratta della famiglia che più mi piace fra quelle che frequento meno, se mi si passa questa definzione, ma direi che sei decenni abbondanti dicono molte cose anche a chi non le sa tutte.
Questa mattina ho saputo, e meno male che piove e il cielo non ha squarci di stupido sereno ma solo una cappa color piombo che inzuppa gli uomini e le cose, perché davvero non sarebbe stato adatto un tempo diverso.
Si chiama Vito.
autore: mauroarcobaleno (blog.mauroarcobaleno.it)
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