(7030 caratteri, 1412 parole, 8 minuti per leggerlo: forse è troppo, data la brevità della vita, vi capirò senz’altro; sarei ipocrita a non giustificare chi diserterà da questo istante e passerà oltre.)
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Se conoscessimo la data esatta della nostra morte ci sarebbe impossibile vivere? Forse sì, specialmente se fosse ravvicinata e se la conoscessimo d’improvviso già da adulti.
Un cinquantenne che apprendesse di dover morire a 61 anni come affronterebbe il decennio che gli resta? Si ucciderebbe? Non riuscirebbe più a fare alcunché, sapendo che tutto sarebbe vano? Forse sì. Eppure è la nostra attuale condizione: dobbiamo morire con certezza, e potrebbe capitare tra due minuti, eppure andiamo avanti senza pensarci. Ogni giorno compiamo scelte che irridono la certezza della morte. Sarebbe dunque la certezza della data a renderci impossibile una vita serena? Non penso che sia del tutto vero.
Se tutti conoscessero la data finale già alla nascita, si abituerebbero alla cosa. Stai per partorire un bambino e sai che questo morirà a 5 anni: certo è straziante. Vivresti la vita in modo totalmente diverso, ma non sono convinto che non la vivresti, se questa cosa fosse normale e se valesse per tutti. Si tratterebbe di provare, dette così son solo chiacchiere, ne convengo. Mia madre ha 86 anni, non so quando morirà: supponiamo a 99. Alla nascita lo avrebbe saputo: sarebbe cresciuta con questo dato. Le avrebbe impedito di vivere? No, perché se ragioniamo sappiamo bene che dobbiamo morire e che molto ma molto probabilmente questo avverrà ben prima del secolo di vita. Se invece avesse saputo di dover morire a 26? Le cose sarebbero state diverse...
Il punto allora non è tanto il saperlo, ma il conoscerlo se è ravvicinato, il termine. Però... hai un figlio, sai che morirà a 5 anni. Sarebbero 5 anni strazianti? Sì, insopportabili. Ma se non lo sai e ti muore di botto a 5 anni, avrai comunque una vita piena di strazio, insopportabile, e fino alla tua morte. Ok, dice l’interlocutore: ma almeno avresti vissuto bene 5 anni, felice. Sì, è vero: ma solo perchè vittima di un’illusione, di un inganno, di un macigno invisibile sospeso sulla tua testa e pronto a colpirti. L’argomento, come si vede, è spinoso e difficile da sbrogliare.
C’è chi preferirebbe sapere la data rinunciando in cambio a qualche anno; chi assolutamente non vorrebbe saperla (la maggior parte).
Certo è che quel che ci fa vivere è la presunzione di essere immortali: un piccolo meccanismo della nostra mente che ci fa andare avanti come se non dovessimo mai morire, che ci impedisce di pensare all’ineluttabilità della morte. E’ per questo che facciamo continuamente progetti, stipuliamo mutui, mettiamo al mondo un figlio. Ed è anche per questo che siamo avidi, arroganti, egoisti. Quando si incrina quel meccanismo entriamo in crisi: non riusciamo più a vivere. Improvvisamente ci vediamo vivere. Scorgiamo con una nettezza inaudita la meschinità e la vanità del tutto. E siamo bloccati. Cadiamo preda della disperazione, della depressione. E magari ci uccidiamo. Se non ci uccidiamo, non viviamo più; al più, vegetiamo. Un po’ come, forse, se già a 15 anni sapessimo di dover morire con certezza a 40?
Di tutte le forme di vita che popolano questa sfera oblunga che gira silenziosa in un buio infinito e freddosiamo gli unici, noi esseri umani, a sapere che moriremo: solo, non sappiamo l’ora. Le altre forme di vita non sanno di dover morire. E non si pongono interrogativi sulla loro origine, sul senso del loro percorso di vita e sulla possibilità che esso termini.
Ecco perché sono esposte solo alla sofferenza, mentre noi siamo preda anche dell’infelicità. Noi sappiamo che la vita ci porterà dolore, sofferenza e morte, quindi soffriamo già prima di soffrire: siamo infelici. Sappiamo troppe cose per vivere con spensieratezza. Abbiamo paura di quel che conosciamo. Grazie a quel meccanismo di sopravvivenza, che noi non controlliamo, riusciamo comunque ad andare avanti, cavalcando un’illusione che ci facciamo sembrare vera, ma sotto sotto sentiamo sempre quella vaga inquietudine che basta un niente e diventa orrida disperazione e che comunque vena sempre di incertezza e di paura ogni attimo apparentemente felice della nostra esistenza piena di progetti, successi e ricordi. Se poi, come detto, il meccanismo si ingrippa, è la fine: diventi spettatore della tua vita, ne vieni spossessato, non hai più la ragione per muovere un muscolo. Capisci che tutto è vano e nulla ha senso, non riesci più a fare alcunchè: sei morto pur essendo vivo, con l’aggravante che vivi ancora e ti vedi farlo dal di fuori: una tortura unica e insopportabile. E ti trovi in mezzo a persone che sono come tu eri e che adesso per te è impossibile capire.
Siamo padroni della nostra vita? Sì. Non è un dono e se lo è ormai è nostro, come qualunque cosa, positiva o negativa, che ci venga donata. Ne siamo padroni ma non la dominimao del tutto, perché, come detto, essa è soggetta a una fine e non sappiamo quindi quanto durerà, e in quali condizioni la vivremo. Siamo padroni della nostra vita perché quello che siamo e che facciamo dipende da noi, non da un destino già scritto o da un dio. Quindi se sei un fallito, è colpa tua. Se non sei riuscito ad emergere come cantante, o a costruirti una famiglia, anche. Ovviamente tenuto conto delle cirocostanze (salute, sfortuna, cattiveria degli uomini, etc), che però non sono determinate da un’entità superiore e che non possono valere come scusa: sono frutto del Caso, che regola tutto e tutti influenza. Quel caso che ti fa morire a 3 anni di aneurisma o campare in buona salute fino a 100, quel caso che ti salva dalle ruote di un tir impazzito solo perché il vicino ti ha trattenuto a chiacchierare sulle scale trenta secondi. Quel caso che però non è una giustificazione perché, all’interno della cornice che ti è data, il quadro lo dipingi tu, e comunque è ... causale, e comunque non dipinge il quadro un’entità terza a te superiore. Siamo liberi. Siamo condannati in quanto liberi, perché siamo condannati alla libertà, à la Sartre. Nasciamo senza ragione, viviamo per debolezza, crepiamo per combinazione. E’ una visione che sembra darci libertà, invece ci mette sulle spalle un fardello pesantissimo.
Siamo padroni della nostra vita anche perché possiamo decidere di porvi fine in qualunque momento, ha detto più di uno. Possiamo conoscere il momento in cui moriremo, semplicemente decidendolo. Ed è vero. Molti lo fanno. Perché sono deboli, malati? Alcuni sì. Ma in generale chi lo fa non come conseguenza diretta di una malattia della mente lo fa consapevolmente, quindi si tratta di una scelta che dobbiamo rispettare e che, al contrario di quel che si pensa, richiede un coraggio formidabile, proprio perché deve vincere l’insopprimibile istinto alla vita che, nonostante tutto, arde dentro di noi e che, facendo appello molto spesso alla pura meterialità dell’esistenza, costituisce un richiamo irresistibile anche per chi è sull’orlo dell’abisso.
Quando sento parlare di senso della vita sorrido e mi prende l’angoscia. La vita non ha un senso. Dobbiamo essere noi a darglielo. E, davvero, non è facile, perché siamo mortali, siamo carne e ossa e pensiero, e quest’ultimo spazia libero, ha voglia di cielo, mentre le prime due ci tengono ancorati quaggiù al nostro triste e finito cammino. Cercare un senso in questa esistenza vuol dire soffrire in maniera atroce: è come sta chi proprio un senso non riesce a darlo e quindi, come detto, lo cerca senza trovarlo, dato che non c’è. Non si tratta dell’esistenza o della non esistenza di un dio a scelta tra quelli a cui gli uomini hanno creduto o tuttora credono nelle varie civiltà e nella varie parti del mondo, la questione è più complessa. Credere in un dio creatore è certamente lecito ed è uno dei modi di dare un senso al tutto, ma è bene aver chiaro i termini della questione: questo dio esiste come esiste Superman, esiste certamente, ma perché lo abbiamo creato noi. Non penso che esista un sistema di valori superiore a cui dobbiamo riferirci o uniformarci. Questo vuol dire relativizzare la morale? Non so, può essere, e capisco che sia rischioso, ma l’alternativa è pura finzione: può essere utile per vivere, addirittura essenziale, ma resta una finzione.
Alla fine, ho più false certezze disvelate che nuove certezze, è vero. Ma è bene sgombrare il campo da quel che non serve, sperando di trovare un modo per guadare questo grande fiume, avendo ben chiaro in testa che siamo soli e che solo da noi, oltre che dal Caso a cui abbiamo dato nei secoli vari e vani nomi, dipende quel che faremo durante questa esperienza dalla durata non prevedibile.
autore: mauroarcobaleno (blog.mauroarcobaleno.it)
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