Oggi Giovanni mi ha ricordato un episodio che avevo rimosso. Ha una memoria meno fallibile della mia, quanto a vita passata.
Avevamo sostenuto l’esame di Scienze delle Finanze insieme (come quasi tutti gli esami, e non pochi, fino a quando poi lui ha continuato a buon ritmo e io meno) pochi giorni prima di Natale. Al momento del verbale, il Prof. si era accorto di non avere con sé i moduli e quindi ci aveva pregato di ritornare dopo le feste per la formalizzazione del voto (che era buono).
Di ritorno, in treno o in auto non ricordo, io avevo chiacchierato a lungo sul fatto che, nel caso in cui al Prof. fosse capitata una sciagura durante le festività, avremmo dovuto ridare l’esame tutti e due.
Poi gli ho chiesto: quindi già allora (primi ‘90) parlavo spesso della morte, vero? Risposta: era un po’ uno dei tuoi leitmotiv.
Infatti, mi pareva...
Del resto io la sento sempre accanto a me, non so da quanto. Ma non è che io ce l’ho e voi no. Ce l’abbiamo tutti, sulla spalla, da quando nasciamo (da quando veniamo concepiti e ancora ci balocchiamo nella bolla d’acqua dentro la panciona della mamma). E’ che non tutti la avvertono. O la avvertono sempre.
Io sono dell’idea che se parlo di morte (direttamente o indirettamente) e/o ci penso anche per due ore al giorno complessive (pare tanto, eh), ne ho sempre 22 in cui (a livello conscio) non ci penso e/o non ne parlo: mi pare quindi un parlare ben poco della morte, tenuto conto che è l’unica cosa che può cancellare la vita.
autore: mauroarcobaleno (blog.mauroarcobaleno.it)
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