Esterno giorno, ore sei e quarantacinque della mattina, il sole ancora non è sorto sebbene ormai debba rassegnarsi a farlo, sono alla stazione ferroviaria in attesa del treno che, nel giro di un'ora e quaranta minuti (più canonico ritardo) mi porterà a destinazione. Marciapiede discretamente affollato di studenti e di varia umanità, per lo più assonnata o "sfavata", quasi tutti con zaino, 24 ore o valigia d'ordinanza, quotidiano sotto il braccio, labbra o colletti che ad un occhio attento tradiscono il ricordo di una brioche presa in fretta al bancone del bar, occhio da triglia e lingua impastata ma non incapace di fare chiacchericcio sul nulla già di buon ora. Chi è qui a quest'ora è diretto al lavoro o all'università, sicchè il morale rischia di far inciampare i distratti; quei pochi che sono in vacanza, invece, li riconosci perchè le luci dei lampioni si riflettono sui loro denti schierati in attoniti sorrisi. Non si può oltrepassare la linea gialla, ricorda una voce dall'alto: casomai a qualcuno venisse in mente di suicidarsi, sappia che da regolamento non può. E farebbe meglio a ripensarci, aggiungo io, perchè un suicidio ora e qui mi farebbe ritardare di ore e il malcapitato, se mai se la cavasse, dovrebbe poi vedersela con me: ci sono tanti ponti, prego accomodarsi.
Salgo sul treno e mi accorgo che non cambia mai niente: come dieci anni fa, quando andavo all'Università (no, non mi sono laureato, ormai punto all'alloro per anzianità), il treno delle sette è cronicamente insufficiente a recepire tutti i viaggiatori, sicchè come sardine viaggiamo stipati in scatole di latta, ma a differenza delle sardine abbiamo pagato un biglietto piuttosto salato (loro comunque sono sotto sale, un'analogia c'è). L'incompetenza dei dirigenti di Trenitalia fa a gara con la loro miopia e con il loro menefreghismo. Non trovo posto e mi rassegno a stare in piedi davanti alle porte, almeno per la prima parte del viaggio. La tentazione di farsi uno spino con il biglietto del treno che mi garantisce un posto in piedi c'è, inutile negarlo.
Nello spazio di metà vagone, compreso tra i due scompartimenti, in cui mi trovo, siamo in sette: tre si sono accomodati su quegli sgabellini di fortuna che spuntano dalla pareti, gli altri in piedi sognano viaggi interstellari a bordo di astronavi dai grandi e soffici divani. Io sono in piedi, l'innato senso della cavalleria mi impone di favorire il gentil sesso (che spesso gentile non è, ma insomma). Uno dei malcapitati che condivide il mio spazio vitale (seduto su uno di quei seggiolini) è un tipo al quale non chiederesti mai, incontrandolo in una città sconosciuta, dov'è via tal dei tali: piuttosto a un lampione, ma non a lui. Sguardo accigliato (è un duro o semplicemente uno duro?), anelli alle dita, borchie a piacere, unghie delle mani tagliate quadrate, anfibi, capelli 0,3 mm, orecchino dalla parte giusta, piercing, tatuaggi vari, abbigliamento aggressivo sul verde militare, presumibili idee politiche del cacchio e pochi neuroni a ballare sulla pista compresa tra le orecchie. Sta leggendo un fumetto (immagino una roba pulp, tipo suore tagliate in tre pezzi, bombe alla moschea, olocausto al country club). Certo, ti chiedi perchè mai un duro come quello si sia seduto, indulgendo ai piaceri della carne, anzichè infliggersi una normale e gratificante mortificazione fisica quale quella dello stare in piedi su un treno affollato, ma concludi, guardandolo di sfuggita negli occhi (uno sguardo insistito potrebbe garantirti un posto letto in ortopedia), che si è seduto per dimostrare che può fare quello che vuole, gentil sesso o no, e che lui sta seduto, gli altri vedano un po'. Anche il fumetto mi ha insospettito, lì per lì, ma non era mica Heidi o Remi o i Fantastici Quattro, lo intuivo da lontano: roba tosta, sicuramente per stomaci forti.
Invece era un caso in cui occorreva dar retta ai fugaci indizi di cui ho detto, sebbene fossero in palese contrasto con un abbigliamento e un modo di porsi da tipo che non deve chiedere mai e che, quando è stato proprio costretto a chiedere, ti ha già messo la mascella e il palato in condizioni tali da non poter rispondere se non con cenni della testa.
L'ho capito, che avevo sbagliato nell'ignorare certi piccoli indizi (lo zainetto pulito e a modino, il fatto di essersi seduto, il fatto di leggere un fumetto), quando ha deciso di fare una telefonata, dopo aver ricevuto un messaggio. Voce flebile e timorosa come quella di una teenager in piena crisi ormonale che di nascosto al babbo, in piedi nel corridoio, sta telefonando al fidanzatino, tutta sussurri e sguardi impauriti nel timore di veder spuntare il genitore, questo marcantonio finto metal e punk per ridere ha cominciato a bisbigliare e a sussurrare frasi incomprensibili per qualche minuto buono, per poi concludere con un chiarissmo e rivelatore "ti amo tanto anch'io, tesoro".
Da quel momento in poi non l'ho più guardato, la mattina è meglio non indugiare su spettacoli troppo raccapriccianti, si corre il rischio di impressionarsi la retina e stare un po' straniti tutto il dì. Basta, per me il discorso si chiudeva lì, con quel "a presto, ti amo tanto" che stonava sulle sue labbra quanto potrebbe stonare un altoatesino in costume tradizionale a passeggio per Nairobi.
Tanto valeva, allora, mettersi un paio di pinocchietti, una t-shirt e un paio di scarpe da ginnastica. Sarebbe come se una suora girasse per il centro cittadino in babydoll.
Che delusione. Non ci sono più i duri di una volta.
autore: mauroarcobaleno (blog.mauroarcobaleno.it)
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